Stati Uniti, 4 Novembre 2008: Barak Obama è eletto Presidente degli Stati Uniti d’America – un avvenimento che in teoria sembrava essere ben al di là del semplice evento politico, trattandosi del presidente della nazione più potente al mondo. Nella pratica, però, mai come adesso gli Stati Uniti sono stati una nazione guerrafondaia, violatrice dei diritti internazionali, con sistemi bancari fraudolenti, industriali senza scrupoli nell’accaparrarsi le risorse di altri paesi, fomentatori di rivoluzioni per capovolgere regimi e imporre i propri uomini, leader fantocci al servizio di una falsa democrazia, al servizio del dio denaro.
Europa 2011: Tutti i regimi democratici del dopoguerra in avanti sono diventati servitori del denaro anziché della giustizia sociale, per non parlare dei principi morali del Dio della Bibbia i quali sono sistematicamente calpestati da una cultura consumistica anch’essa divenuta serva del dio denaro. Tutto questo non senza conseguenze sul piano spirituale.
Poteri finanziari più o meno occulti stanno dietro i nostri governanti, i quali finiscono con l’essere una “facciata”, dei “prestanomi”. I rappresentanti dei governi degli ultimi 50 anni hanno infatti indebitato gli Stati europei quasi al punto da farli fallire. Lo chiamano debito pubblico, del popolo, anziché debito statale, fatto dai politici, dalle pensioni d’oro.
Supertassano i popoli promettendo più servizi, quando sanno bene che le tasse serviranno a non far fallire gli Stati. Supertassano per il riarmo militare e arricchire i mercanti di morte. Questa non è democrazia, ma una dittatura dei soldi mascherata di democrazia. Regimi così ipocriti danno ai popoli l’illusione di potersi scegliere governanti validi e decidere del proprio destino. Ma da qualsiasi schieramento, gli eletti finiscono con l’essere servi dei poteri finanziari. Questi fanno cadere o mettono fuorigioco chiunque non promuove i loro interessi. Questo è il problema più grave. Il sistema azionario esiste principalmente per garantire profitti agli azionisti fannulloni, anziché garantire salari decenti a quelli che producono beni e servizi. Quando gli Stati si indebitano attraverso governi dittatoriali o sistemi parlamentari spendaccioni il debito è riversato sul popolo. Quando i sistemi azionari non riescono a produrre profitti, le loro borse fanno cadere i governi, creano la disoccupazione, producono sistemi sociali dove i lavoratori sono oppressi, perfino schiavi. E c’è chi si vende per un tozzo di un tozzo di pane.
Il debito pubblico è un esempio di fallimento di governanti che negli ultimi 50 anni si accusano a vicenda. In realtà, sono tutti responsabili di cattiva amministrazione del patrimonio pubblico. Ma nessuno di loro è chiamato a rispondere solidalmente. Il piccolo cittadino invece sì.
Le nostre nazioni occidentali – tutte le nazioni per essere più precisi – stanno assomigliando sempre più alla «Babilonia» apocalittica dove domineranno sempre di più i mercanti del materialismo e i mercanti di armi mortali, finché non crollerà a livello globale! Il problema è dello spirito.
Nonostante i candidati facciano del loro meglio per mostrarsi validi, gli elettori rimarranno inevitabilmente delusi quando i vincitori, puntualmente, non si dimostreranno all’altezza delle aspettative, come è successo negli ulti 70 anni. E’ davvero il caso di tutte le nazioni, specialmente del mondo occidentale, dove nessuno sembra avvertire che i mali dell’Euro e del dollaro sono legati, in gran parte, alla legalizzazione di stili di vita disapprovati da Dio e all’assenza di leader che abbiano il coraggio di promuovere sani ideali e valori spirituali a parole e a fatti. Tutti pensano a salvare la faccia per le prossime elezioni.
In questo periodo più che mai si avverte l’esigenza di una figura autorevole che sappia esercitare in modo giusto e reale il proprio potere. Ma da dove verrà?
Alcuni pensano che basta occupare posizioni di comando per essere buoni governanti. In realtà non è così. Se una persona si considera un gradino sopra gli altri solo per il fatto di occupare una posizione autorevole, la gente inizierà ben presto a lamentarsi per il modo in cui viene trattata. Come è scritto in Proverbi 29:2, «Quando i giusti son numerosi, il popolo si rallegra: ma quando domina l’empio, il popolo geme».
Sono molti i potenti che si credono ingiustamente migliori rispetto alle persone su cui esercitano la propria autorità. Un buon capo, invece, sa essere comprensivo, giusto, compassionevole e clemente, ed è rispettato dai suoi sottoposti, poiché lui in prima persona mostra rispetto nei loro confronti. Dà il buon esempio in prima persona. La sua autorità è esercitata con umiltà (Michea 6:8).
Al servizio del Paese
I grandi capi non si distinguono per il potere che esercitano, ma per l’umiltà e il rispetto che mostrano nei confronti dei sottoposti. George Washington fu uno di questi, un vero servitore del suo popolo, non del denaro o dei mercati azionari. C’è un motivo se una volta c’era il sogno americano ed ora è svanito, come profetizzato dalla Bibbia. Dovrebbe essere una lezione preziosa per tutti.
Molti studiosi dell’argomento affermano che George Washington divenne un valido governante grazie alle diverse qualità che possedeva, la meno citata delle quali era l’intelletto, probabilmente perché era circondato da luminari del calibro di Benjamin Franklin, Alexander Hamilton, John Adams, Thomas Jefferson e James Madison.
Joseph Ellis, autore e vincitore del Premio Pulitzer, si espresse con ammirazione in merito alla guida che Washington seppe esercitare seppur circondato da uomini tanto brillanti: «Benjamin Franklin sembrava essere più saggio di Washington, Alexander Hamilton era più brillante, John Adams era più istruito, Thomas Jefferson era intellettualmente più sofisticato, mentre James Madison era più astuto sul piano politico-strategico. Tuttavia, ciascuna di queste illustri personalità riconosceva a Washington il ruolo di capo indiscusso.» Da notare che fra tutti quei politici non c’era lo spirito di divisione che affligge i Parlamenti occidentali moderni.
«Tra tutte le eminenti personalità che ebbero l’onore di far parte della schiera dei Padri Fondatori, Washington rappresentò sicuramente il primus inter pares, il “più fondatore” tra tutti i Padri. Mi sono chiesto per quale motivo e ho cercato una risposta, che però giace nascosta da qualche parte tra le mille sfaccettature della personalità più ambiziosa, determinata e autorevole di quell’epoca, nonostante i molti validi rivali che lo circondavano» (His Excellency: George Washington, 2004, pag. xiv).
Agli inizi della sua carriera militare (1755), mentre prestava servizio come colonnello nelle truppe della Virginia sotto il comando del generale dell’esercito britannico Edward Braddock, Washington si imbatté accidentalmente insieme ai suoi compagni d’armi in un’unità distaccata di francesi e indiani, ritrovandosi improvvisamente nel mezzo di una sparatoria.
Con Braddock fuori combattimento e altre fatalità accadute ad altri ufficiali, toccò a Washington radunare il resto della truppa. Correndo all’impazzata in mezzo al caos, due dei suoi cavalli furono colpiti a morte e il suo mantello lacerato da quattro colpi di moschetto, ma nonostante ciò riuscì a fuggire al fuoco senza riportare nemmeno un graffio, mentre, usando parole sue, «vedevo la morte sterminare i miei compagni ovunque mi girassi» (pag. 22).
Washington era riuscito a radunare con ordine i superstiti e a organizzare la ritirata, mettendo a repentaglio la sua stessa vita per salvarne altre.
Samuel Davies, suo contemporaneo, descrisse così il futuro presidente: «Quel giovane, eroico colonnello Washington, che mi auguro la Provvidenza abbia preservato per noi affinché possa dare un grande contributo al paese» (ibid.).
George Washington ebbe dalla sua tempo, opportunità, carisma ed esperienza. Le sue imprese durante la guerra franco-indiana lo consacrarono eroe indiscusso.
Con l’inasprimento delle ostilità in seguito allo scoppio della Guerra di Indipendenza, il 15 giugno del 1775 il Congresso Continentale elesse all’unanimità George Washington generale e comandante dell’Esercito Continentale, per diverse ragioni. Sapevano di potersi fidare di lui, poiché era ricco, e di conseguenza meno incline alla corruzione; inoltre era un comandante temerario, determinato e competente, che condivideva gli stessi ideali dei funzionari coloniali.
Washington fece un’ottima impressione sia ai suoi sottoposti che a molti membri del Congresso. «Era come se George Washington, che aveva così tanto da perdere, fosse disposto a rischiare tutto, per quanto sfavorevoli potessero essere le circostanze. Il fatto che prestasse servizio senza percepire alcun compenso fu un’ulteriore prova dell’autenticità del suo impegno» (David McCullough, 1776, 2005, pag. 48).
Portò a termine il suo servizio in maniera impeccabile, e una volta finita la guerra, invece di coltivare la carriera scelse di dimettersi dall’incarico e di ritirarsi nella sua proprietà. Quando gli venne offerta la corona del nuovo paese, replicò che non aveva combattuto una guerra contro il monarca britannico Giorgio III per diventare Giorgio I d’America.
Nel 1789 il collegio elettorale lo elesse all’unanimità primo presidente della repubblica federale degli Stati Uniti, e nel 1792 venne rieletto, sempre con l’unanimità dei voti. Scaduto il secondo mandato, che aveva accettato con riluttanza, Washington rinunciò al potere rifiutando ulteriori mandati, e si ritirò a vita privata a Mount Vernon.
Quando morì due anni dopo, venne elogiato da uno dei suoi generali con queste parole: «Primo in guerra, primo in pace, e primo nei cuori dei suoi compatrioti». Washington godeva di un tale rispetto che persino i suoi vecchi avversari della marina britannica esposero le loro bandiere a mezz’asta in segno di lutto.
Washington viene ricordato come il padre del suo paese, tanto che la sua effigie è stata scolpita sul Monte Rushmore e stampata sulla leggendaria banconota da un dollaro. Con la sua esemplare condotta ha dato il buon esempio a tutti gli aspiranti politici.
Un altro esempio, presidente degno di lode
Poco meno di un secolo dopo, il mondo conobbe un altro grandissimo personaggio, che condusse gli Stati Uniti fuori da una cruenta guerra civile e che riuscì ad abolire, almeno in parte, la schiavitù. Abramo Lincoln fu il sedicesimo presidente degli Stati Uniti, che trasformò il paese e pagò con la sua stessa vita, ferito a morte per mano di un cospiratore.
Sono stati scritti molti libri su Lincoln, ma pochi di questi parlano del suo governo, di cui uno su tutti: Lincoln on Leadership, di Donald Phillips (1992).
«Se le autorità dei giorni nostri vogliono assicurarsi una brillante carriera politica, devono studiare a fondo le moderne teorie di governo, ma per fare ciò è necessario fare riferimento al passato, al presidente Abramo Lincoln, per esempio, che già all’epoca attuava con regolarità molte delle tecniche ‘rivoluzionarie’ adottate dall’industria americana nel corso degli ultimi 10-15 anni», scrive Phillips.
«Lincoln incarna il modello ideale di autorità, ovvero una guida valida ed efficiente che mira al raggiungimento di un nuovo livello di consapevolezza tra tutti i membri dell’organizzazione, del gruppo o del paese a cui si appartiene. Un’autorità che rifiuta il mero sfruttamento del potere a proprio vantaggio e che prova invece a motivare e a coinvolgere i suoi sostenitori, invitandoli a prendere una posizione nell’ambito di un’importante missione condivisa da tutti» (pag. 172).
Le autorità di oggi dovrebbero imparare a conoscere il proprio popolo, seguendo l’esempio di Lincoln, che durante la guerra civile «era solito uscire dal proprio ufficio per scendere in mezzo ai suoi soldati» (pag. 13).
Nemmeno i suoi generali lo facevano. Quando Lincoln sollevò il generale John C. Fremont dal suo incarico nel 1861, motivò così la sua decisione: “Il più grande errore del generale Fremont è che si isola e non permette a nessuno di vederlo, rimanendo all’oscuro di ciò che accade intorno a lui» (pag. 13).
Come “Honest Abe” si guadagnò questo nome
Il candidato alla presidenza Abramo Lincoln si conquistò ufficialmente lo pseudonimo di “Honest Abe” [onesto Abe (diminutivo di Abraham), n.d.t.] durante la campagna del 1860, ma di fatto se l’era guadagnato anni prima. Agli inizi degli anni ’30, Lincoln si mise in società con William Berry per aprire un negozio di generi vari. Tuttavia, col tempo accumularono un ingente debito che Lincoln si ritrovò a dover gestire da solo dopo la morte del suo socio nel 1835. Anche se gli ci vollero diversi anni, Lincoln riuscì ad estinguere il debito che ammontava a ben 1100 dollari, una cifra enorme per quel tempo.
Lincoln non guidava le persone con l’imposizione, ma lasciando loro libertà di azione. Ad esempio, per ristabilire la pace tra i suoi ogni qualvolta sorgeva un conflitto, li riuniva per permettere loro di discutere le proprie divergenze faccia a faccia. Fu questo il caso di Salmon Chase, segretario del tesoro che, mosso da invidia nei confronti del segretario di stato William Seward, radunò alcuni senatori per accusare quest’ultimo di fronte al presidente Lincoln. Il presidente li fece incontrare affinché discutessero di persona la situazione. Durante il processo, Chase si rese improvvisamente conto di aver svelato il suo piano segreto, e che non gli rimaneva altro da fare che ammettere la non colpevolezza di Seward e rassegnare le proprie dimissioni.
«La morale è che molti dirigenti si renderanno conto di quanto l’approccio di Lincoln sia efficace: si convocano le parti in conflitto, le si chiude in sala conferenze e le si costringe a rimanerci fin quando pace non sarà fatta.»
«Se Lincoln avesse imposto la sua autorità, le parti in conflitto avrebbero probabilmente accettato la sua decisione ma con risentimento, e il problema non solo non si sarebbe risolto, ma si sarebbe sicuramente inasprito col tempo. Radunando i contendenti, invece, fece in modo che il problema si risolvesse da sé» (pag. 102).
Lincoln era famoso per non agire mai in preda alla vendetta o al rancore, e per la sua incredibile capacità di incassare le critiche, anche se ingiuste. Lo scrittore Bruce Burton, nel suo libro The Man Nobody Knows, ci racconta un episodio molto esplicativo della vita di Lincoln, avvenuto durante i giorni bui della guerra civile:
«Un uomo autorevole uscì dalla Casa Bianca per recarsi presso il War Office [ufficio della guerra, n.d.t.], con il compito di consegnare una lettera del presidente al Segretario della Guerra, Edwin Stanton. Inaspettatamente, tornò indietro dopo pochi minuti, accecato dall’ira.
«Il presidente lo guardò sorpreso. ‘Hai consegnato la lettera a Stanton?’, chiese».
L’uomo annuì, troppo arrabbiato per proferire parola.
«’E cos’ha fatto?’»
«’L’ha strappata’, esclamò l’uomo, indignato, ‘e quel che è peggio, signore, è che ha detto che lei è uno stupido’.»
«Il presidente si allontanò lentamente dalla scrivania, alzandosi in tutta la sua statura, e osservò il suo interlocutore con sguardo perplesso.
«’Stanton mi ha chiamato così?’, chiese.»
«’Sì, signore, l’ha fatto, e l’ha anche ripetuto’.»
«’Ebbene’, disse il presidente lasciandosi scappare una risatina, ‘devo dedurre che sia vero allora. Stanton di solito ha ragione’.»
«L’uomo di fronte a lui, ancora alterato, attendeva l’improvviso scoppio della tempesta, ma invece non accadde nulla. Lincoln se ne tornò tranquillamente alla sua scrivania e si rimise al lavoro» (1987, pag. 3).
Agendo in questo modo, Lincoln non solo mantenne il coriaceo segretario della guerra al suo posto di lavoro, ma alla fine riportò su di lui una grande vittoria. Alla morte di Lincoln, infatti, quell’uomo che tempo prima gli aveva dato dello stupido pianse amaramente la sua scomparsa: «Qui giace il comandante migliore che il mondo abbia mai conosciuto».
Un altro grande a difesa del suo paese
Né Abramo Lincoln né George Washington cercarono mai di costruire degli imperi, né di acquisire potere per se stessi. Grazie alle loro grandi doti di comando, guidarono il loro paese in tempi di profonda crisi, proprio come accadde per il primo ministro inglese Winston Churchill.
Il mondo così come lo conosciamo oggi deve moltissimo a Sir Winston Churchill. Se non fosse stato per la sua strenua opposizione contro l’insaziabile sete di potere di Hitler, l’Europa (o buona parte di essa) sarebbe probabilmente caduta sotto il dominio dei nazisti dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Le sue eccellenti doti di comando emersero inequivocabilmente in un memorabile discorso che tenne alla Camera dei Comuni il 4 giugno del 1940. In uno dei momenti di crisi più profonda per il paese, Churchill incitò i suoi uomini a non cedere di fronte al pericolo. Churchill divenne in tutto il mondo il simbolo della determinazione del suo paese nel contrastare il dominio nazista sul continente. Grazie alla sua caparbietà, il suo popolo riuscì a sconfiggere un potente dittatore che aveva messo in serio pericolo quella libertà di cui gode il mondo oggi.
George Washington, Abramo Lincoln e Winston Churchill, purtroppo, rappresentano un’eccezione e non certo la regola.
L’eredità di morte dei dittatori
La storia è costellata di governanti corrotti che non hanno esitato un istante a sacrificare altre vite umane per soddisfare la propria sete di potere, e spesso le vittime di tanta malvagità sono stati i loro stessi connazionali. La dittatura del denaro può non togliere la vita, ma è moralmente distruttiva.
Nell’antica Roma capitava sovente che gli imperatori si autoproclamassero figli degli dei (si dice che uno di loro, in punto di morte, esclamò «Sento che sto diventando un dio!»). Era proprio questo tipo di mentalità che li legittimava a sentirsi superiori agli altri, e di conseguenza a sfruttare i sudditi a proprio piacimento per soddisfare la propria sete di potere.
Il 20° secolo ricorda tristemente tre grandi dittatori, responsabili di veri e propri genocidi che sono costati la vita a decine di milioni di persone: Mao Tse-tung, Adolf Hitler e Joseph Stalin.
Questi dittatori sono riusciti a raggiungere il potere e a mantenerlo attraverso una serie di provvedimenti atti a instillare un senso di terrore nella popolazione, eliminando le istituzioni rivali che avrebbero potuto batterli sul piano della lealtà, assumendo il controllo sulle strutture militari e sul sistema di istruzione, con l’obiettivo di influenzarlo a lungo termine, e pretendendo obbedienza a ogni loro comando o capriccio.
E’ incredibile come tali personaggi siano riusciti ad esercitare un’autorità tanto forte nel 20° secolo, ed è ancor più incredibile che la loro malvagità sia poi stata emulata da altri individui altrettanto megalomani, come il cambogiano Pol Pot, il nord coreano Kim II Sung, l’iracheno Saddam Hussein e il libico Gheddafi, ognuno dei quali si è macchiato del sangue di migliaia di propri connazionali, nell’intento di acquisire sempre più potere.
Purtroppo, i governanti giusti, quelli che Dio promuove attraverso le parole della Bibbia, sono una cosa estremamente rara, come rivelato dalla storia e nella Bibbia.
La lezione di Cristo sull’umiltà
Gesù Cristo ha spiegato ai Suoi discepoli in cosa consiste esattamente il buon governo. Prima della loro conversione, anche i discepoli di Gesù ambivano ad ottenere posizioni il più prestigiose possibili, e si affannavano per riuscire in questo loro intento. In risposta, Gesù rivelò quale deve essere l’attitudine del buon governante approvato da Dio:
«Voi sapete che i principi delle nazioni le signoreggiano, e che i grandi usano potestà sopra di esse. Ma non è così tra voi; anzi, chiunque vorrà esser grande fra voi, sarà vostro servitore; chiunque fra voi vorrà esser primo, sarà vostro servitore; appunto come il Figliuol dell’uomo non è venuto per esser servito ma per servire, e per dar la vita sua come prezzo di riscatto per molti» (Matteo 20:25-28).
Se queste qualità fossero un requisito essenziale per gli aspiranti politici di oggi, saremmo decisamente a corto di candidati!
La visione che Dio ha dell’autorità è opposta a quella dell’uomo. «Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice l’Eterno. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così son le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri» (Isaia 55:8-9).
Per esercitare autorità in modo giusto bisogna andare al di là della superficialità, dei gusti personali e del proprio benessere. Un buon capo si sacrifica e si mette al servizio degli altri, si prodiga per aiutare il prossimo più di quanto non faccia per se stesso.
Il libro dei Proverbi ci dà la conferma di quale dev’essere il vero vincolo che lega il potere e chi lo esercita: «L’umiltà precede la gloria» (Proverbi 15:33).
Un altro grande principio che Gesù ci insegna è che ogni singolo individuo è importante per un buon capo, proprio come per Dio.
«Se un uomo ha cento pecore», disse Gesù, «e una di queste si smarrisce, non lascerà egli le novantanove sui monti per andare in cerca della smarrita? E se gli riesce di ritrovarla, in verità vi dico ch’ei si rallegra più di questa che delle novantanove che non si erano smarrite. Così è voler del Padre vostro che è nei cieli, che neppure un solo di questi piccoli perisca» (Matteo 18:12-14). Eppure quante persone sono abbandonate alla disoccupazione e all’indigenza oggi.
Un buon capo è disposto a ricercare una persona che si è smarrita lungo il cammino, invece di darla per spacciata ed abbandonarla al suo destino.
Un buon capo mette da parte i propri bisogni per aiutare gli altri, anche se da questi è odiato (Matteo 5:44). Ecco come Dio Padre celebra il supremo esempio dato dal Suo Unigenito Figlio:
«Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù; il quale, essendo in forma di Dio non riputò rapina l’essere uguale a Dio, ma annichilì se stesso, prendendo forma di servo e divenendo simile agli uomini; ed essendo trovato nell’esteriore come un uomo, abbassò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce.
«Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al disopra d’ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre» (Filippesi 2:5-11).
Questo è l’atteggiamento che un buon capo dovrebbe avere. Dovrebbe essere un uomo disposto a rinunciare a tutto, pur di permettere agli altri di esprimersi al massimo sfruttando il talento che Dio ha donato loro. Il giorno in cui Cristo ristabilirà il Suo Regno qui sulla terra, il mondo intero potrà finalmente godere di questo tipo di guida, fondata sull’umiltà e sulla disponibilità nei confronti del prossimo.
Avrete probabilmente recitato il Padre Nostro, di cui una parte cita: «Venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra» (Matteo 6:10). Ma lo sapevate che questi versi predicono la pace millenaria che Cristo porterà sulla terra mediante il Suoi santi? Questi saranno risuscitati nella gloria e governeranno le nazioni (Apocalisse 20:4).
Un’altra profezia sul futuro Regno di Cristo e sul volere di Dio che si attuerà sulla terra è contenuta in Isaia 9:6-7:
«Poiché un fanciullo ci è nato, un figliuolo ci è stato dato, e l’impero riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace, per dare incremento all’impero e una pace senza fine al trono di Davide e al suo regno, per stabilirlo fermamente e sostenerlo mediante il diritto e la giustizia, da ora in perpetuo: questo farà lo zelo dell’Eterno degli eserciti».
Il Regno di Cristo sulla Terra
Gesù Cristo stabilirà la Sua pace sulla terra attraverso diritto e giustizia. La giustizia divina, la vera pace e la gioia duratura provengono solo dall’applicazione dei comandamenti di Dio mediante la presenza dello Spirito di Dio nella nostra vita (Salmi 119:172, Matteo 5:17-19; 19:17; Giovanni 14:27; 1 Giovanni 5:3; Giacomo 3:17-18). Senza la legge né lo Spirito di Dio nel cuore degli uomini, non ci possono essere né giustizia né pace.
Quando Cristo tornerà, per prima cosa abbatterà tutti i governanti, che si saranno radunati a Gerusalemme per combattere contro di Lui (Apocalisse 16:14, 16; 19:11-21; Zaccaria 14:1-12), e poi farà lo stesso con Satana e i demoni, legandoli per mille anni (Apocalisse 20:1-3).
Il profeta Isaia descrive per noi il governo di Gesù Cristo: «Lo spirito dell’Eterno riposerà su lui: spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di forza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno.
«Respirerà come profumo il timor dell’Eterno, non giudicherà dall’apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire, ma giudicherà i poveri con giustizia, farà ragione con equità agli umili del paese. Colpirà il paese con la verga della sua bocca, e col soffio delle sue labbra farà morir l’empio. La giustizia sarà la cintura delle sue reni, e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi.
«Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo giacerà col capretto; il vitello, il giovin leone e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà… Non si farà né male né guasto su tutto il mio monte santo, poiché la terra sarà ripiena della conoscenza dell’Eterno, come il fondo del mare dall’acque che lo coprono» (Isaia 11:2-9).
Questo è il radioso futuro che Dio ci promette, un mondo finalmente dominato da pace e giustizia mediante governanti che hanno sacrificato la loro vita per il benessere degli altri!
Ma sapete, in questo disegno di Dio possiamo esserci noi, se accettiamo di cambiare il nostro modo di vivere. Dio ci invita a cambiare ora la nostra vita (Luca 14:26-27) e il nostro modo di agire (Matteo 20:25-28), affinché possiamo avere anche noi un ruolo attivo nella guida di questo nuovo mondo che verrà (Apocalisse 3:21; 1:6).
Quando Cristo tornerà, coloro i quali avranno messo la propria vita nelle Sue mani e gli saranno rimasti fedeli diffonderanno in tutto il mondo un modo di pensare completamente nuovo, fondato sulle leggi spirituali di Dio, che nasce da un cambiamento di atteggiamento orientato all’altruismo e alla disponibilità verso gli altri (Ebrei 8:10-11).
Accetterete, dunque, il Suo invito a diventare dei veri capi? Non potete nemmeno lontanamente immaginare la fantastica ricompensa che vi attende!
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